Si potrebbe dire che Federico Carletti usi la macchina fotografica come strumento per amplificare ciò che è la sua passione di sempre: l’amore per l’architettura.

Avevo visto qualcosa di suo qualche tempo fa: immagini pulite e rigorose, ma che facevano intuire ci fosse ben altro oltre a queste caratteristiche. Non sbagliavo: le fotografie di Carletti colpiscono proprio perché trattano spazi ed elementi architettonici come attori di scena.
Nei suoi scatti non vi è un solo elemento protagonista che cattura l’occhio, ma molteplici elementi. I muri, le pareti e le strutture sono attori e comparse che, sotto la sua regia attenta e scrupolosa, ridefinisco lo spazio e danno “ordine” ad ambienti interni ed esterni.

Ed è così che gli interni affollati del Louvre diventano quinte di teatro in cui il brusio e il rumore dei passi dei visitatori si congelano e lasciano che a parlare sia la luce. Luce che, filtrando generosa dai lucernai tondi, regala una nota dorata alla pietra chiara dei muri e definisce ogni singolo gradino della maestosa scalinata.

Nella perfetta simmetria di questo scatto, la Nike di Samotracia, per nulla infastidita nel non essere più protagonista assoluta della scena, sta al gioco del fotografo e diventa la punta di un triangolo rovesciato che chiude la simmetria delle botole di luce. Seppure tutto nelle opere di Carletti parli di volume e spazio, vi è comunque un forte richiamo al mondo della grafica. Basti pensare ai capitelli delle colonne e ai soffitti del museo parigino che, grazie all’uso che lui fa della luce, sembrano disegnati a colpi di gessetto.

Il fotografo/architetto di Jesi riesce a gestire al meglio ordine e simmetria. E se è anche vero che guardando le sue opere si ha la sensazione che tutto sia sospeso in un fermo immagine, vi è la sensazione paradossale che tutto sia assolutamente vivo. Sono vivi i muri, la piazza della piramide del Louvre e lo è pure l’asfalto della strada.

Sul piano della scelta dei tagli d’immagine, Carletti fa una scelta precisa: toglie dall’inquadratura il superfluo e quello che non vale la pena raccontare. I suoi tagli fotografici non sono mai scontati: ne è un mirabile esempio lo scatto che realizza al Teatro Ventidio Basso di Ascoli Piceno, dove ci obbliga a guardare i riflessi di un meraviglioso lampadario che domina il teatro e che rischiara i palchetti affrescati. Ed ancora un volta, il protagonista non è più l’evento, ma lo è il teatro come luogo.
Chiara Orlando