Solaris di Tarkovskij non è stato il primo film che ho ammirato del regista russo, ma probabilmente quello che mi ha sedotto e ipnotizzato di più, fin dal primo sguardo. Non un’opera storica, come Andrej Rublev o L’infanzia di Ivan, né autobiografica, come Lo specchio, ma un racconto di fantascienza poetico e sospeso, in cui le leggi della gravità e del ragionamento logico sono temporaneamente messe tra parentesi. E tuttavia, Tarkovskij esplora in questo film un’altra logica, con una coerenza che solo i sogni, l’inconscio, l’immaginazione, la poesia possono avere, e che forse solo il cinema può esprimere. L’ho amato pur vedendolo, la prima volta, solo nella sua versione italiana, mutilata brutalmente di quasi un’ora di pellicola, e quindi di fatto incomprensibile in certi passaggi narrativi. Questo nobile torso, nonostante lo scempio operato dalla distribuzione italiana del film degli anni Settanta (immaginate di leggere un romanzo russo di Tolstoj o Dostoevskij strappando un centinaio di pagine del libro…), mi rivelò il cinema come un linguaggio poetico nel senso pieno del termine, come la possibilità di costruire un universo personale di idee, visioni, immagini, suoni attraverso sequenze filmiche che avevano la stessa compiuta bellezza di un sonetto o di un haiku (non a caso Andrej Tarkovskij è figlio di un poeta, Arsenij Tarkovskij, le cui poesie sono recitate nello splendido Lo specchio o in Stalker). Dopo questa prima visione italiana, vennero naturalmente altre proiezioni in cui ebbi la possibilità di ammirare la versione integrale del film: e tuttavia, come il volto per metà velato di una bella donna fa immaginare e desiderare ancora di più la nascosta bellezza, questo primo Solaris ‘dimezzato’ esercitò un influsso potentissimo sul mio spirito.
Ogni grande film è forse, pur inconsapevolmente, una metafora del cinema e della condizione dello spettatore. Mi piace pensare all’astronave del film, sospesa sopra l’oceano di Solaris, che rimanda ai suoi occupanti i sogni, i desideri, gli incubi, i ricordi estrapolati e rubati dalla loro mente e dalla loro memoria, come a un grande sala cinematografica, dove il pubblico vede sfilare le immagini che in fondo provengono dalla sua stessa interiorità, dalla sua anima. Tutto è immagine in Solaris, immagine e rappresentazione: non reale quindi come sulla terra, quella terra che l’astronauta e scienziato Chris ha abbandonato per compiere la sua missione spaziale; più illusorio, evanescente, impalpabile, nostalgico, più caduco e insieme permanente, indistruttibile, come solo un fantasma o un’icona possono esserlo. Della realtà ritornano le immagini, emerse dal flusso delle onde dell’oceano spaziale, come in un bagno fotografico: l’oceano Solaris è una grande macchina di registrazione e produzione di immagini fluttuanti che ossessionano i viventi, e in particolare Chris inseguito dall’imago replicante di Hari (quell’imago così connessa alla morte e al ricordo per i latini, che la identificavano con la maschera funebre dei defunti), la donna morta che aveva amato. Dall’oceano emergono le immagini della dacia, della terra, delle foglie, degli stagni, degli animali (i cani, i cavalli), del fango, della pioggia: mai in un film di fantascienza la terra è così presente, così desiderata, amata, ricordata, al punto che Tarkovskij ha aggiunto al bel racconto di Stanislav Lem il lungo prologo sulla terra. Ma come in ogni viaggio, è da lontano che possiamo comprendere ciò che abbiamo lasciato o perduto, laggiù in fondo, in basso: la fantascienza è una maniera di riconquistare la terra, nella sua lontana armonia. Restano sulla stazione spaziale, appunto, le immagini, che costituiscono anche la natura, il tessuto del cinema: quelle immagini che, come mostra una delle scene più belle del film, la scena della levitazione per assenza di gravità nella biblioteca, in cui Chris e Hari danzano sospesi e abbracciati fra i quadri dei Mesi di Bruegel, tra libri che volano e candelabri scintillanti, sono così affini e vicine allo statuto dell’opera d’arte. Sospese, irreali, vere ma non reali: ecco cosa sono le finzioni artistiche, come vera ma non reale è la replicante Hari, che pure impara a provare sentimenti, emozioni, dolori propriamente umani.
E al tempo stesso le opere d’arte sono elevate, alte, ci sottraggono allo spirito di gravità pur rappresentando la terra e i suoi drammi, pur descrivendo la natura o raccontando la storia sacra. I Cacciatori nella neve di Bruegel, uno dei quadri più amati da Tarkovskij (come dargli torto?), si apre e si squaderna sulla steppa russa innevata, come le icone di Rublev rimandano all’acqua, ai cavalli, alla terra russa, a partire dai loro materiali, dai pigmenti di cui sono fatti i colori. Guardando un film di Tarkovskij, e ammirando il loro inequivocabile valore artistico, si potrebbero evocare le parole di Goethe: nulla appare più lontano dalla vita dell’opera d’arte, e niente ci avvicina di più alla vita e alla realtà dell’arte.
Michele Bertolini