Non è certamente il film più maturo e compiuto di Bergman, è ancora lontano dalle sue raffinate produzioni degli anni Sessanta. Nella sua innocenza e quasi ingenuità, Il settimo sigillo, privo di contorsioni psicologiche o intimistiche, è un dramma stilizzato come un’incisione di Dürer o come una sacra rappresentazione medievale, dove tutto è simbolo ed emblema: è una ‘pittura su legno’, come il testo teatrale dello stesso Bergman da cui è tratto, in cui un cavaliere medievale di fronte al silenzio e all’assenza di Dio e del diavolo, si trova a giocare a scacchi con la Morte, l’ultima divinità rimasta in un Pantheon desertificato. I personaggi sono figure, quasi allegorie, i contrasti netti e ben definiti: alla stanchezza morale del cavaliere corrisponde il sano, robusto cinismo e relativismo dello scudiero, alla leggerezza gaia e innocente della coppia di mimi e saltimbanchi fa riscontro la malinconia della coppia matura del crociato e di sua moglie.
Ma al di là del dramma e della vicenda, la potenza di questo film si rivela nelle prime inquadrature, nelle prime immagini, dotate di una visionaria fantasia che solo un grande artista del Nord Europa poteva liberare. Il cavaliere Block, una scacchiera con le pedine bianche e nere, la Morte vestita di nero: dietro di loro, sullo sfondo, il mar Baltico, cupo, tranquillo, maestose nubi nere e grigie all’orizzonte, qualche sasso, una spiaggia livida e desolata, un sole che tramonta o forse sorge. Potrebbe essere l’ultimo giorno sulla terra, nel punto più estremo della terra, nella mitica Thule di cui parlavano gli antichi e a cui Goethe ha dedicato una famosa ballata. Questa inquadratura, ad altezza della scacchiera, apre il sipario su un film potente, che vive delle sue immagini: potrebbe essere un quadro, un’incisione, un disegno, giunto a noi da secoli lontani. Questa è forse la prima immagine del primo film che mi ha rivelato, a 17 anni, il cinema come arte: e non poteva che essere un’immagine venuta da tempi e luoghi lontani, assoluta in un certo senso come una fiaba, come la sfida con la morte che mette in gioco.
Non ho visto Il settimo sigillo né a casa, né in un cinema d’essai: l’ho visto a scuola, al liceo, entrando di nascosto insieme ai miei compagni nell’aula di fisica (semicircolare come un auditorium) dove la proiezione era riservata a un’altra classe della nostra sezione. Un geniale supplente di italiano aveva proposto a un terza liceo un approfondimento sul Medioevo che passava singolarmente per Bergman e la Svezia. Sfruttando un’ora ‘buca’, quelle ore che possono rivelare a scuola incontri culturali inediti e inattesi, sono rimasto a guardare ammirato la storia del cavaliere Block di ritorno dalle crociate e della sua silenziosa e solitaria partita, sempre ripresa, sempre ripetuta e rilanciata. Da quel momento, non ho perso un film di Bergman: d’estate mi rifugiavo nella casa del mare a guardare un suo ciclo di film che veniva proiettato in televisione, i cinema d’essai hanno poi fatto il resto.
A vent’anni avevo visto di fatto quasi tutti i suoi film: conoscere il cinema di Bergman è stato per me come leggere Dante per uno studente che impara l’italiano e la letteratura, la porta d’ingresso verso il cinema. In un film cupo, dominato dal senso incombente della morte fisica (la peste) e dal male morale (la superstizione, la violenza degli uomini), i dialoghi appaiono spesso, nella loro evidente teatralità, taglienti, sarcastici, brillanti, acuti. E al centro del film, come un’oasi di pace e di serenità, assistiamo all’epifania di una delle scene più luminose, serene, poetiche, solari della storia del cinema. La bionda Bibi Andersson, una creatura incantata dei boschi scandinavi, offre, immersa in un luminoso crepuscolo di primavera, un piatto di fragole selvatiche e una tazza di latte fresco allo stanco cavaliere, mentre suo marito, il saltimbanco, suona il liuto e canta una dolce canzone sulla primavera. Il sole calante illumina con la sua calda luce i volti dei personaggi che sprofondano nella felicità innocente di quel momento, di quell’attimo di pace. Quell’immagine, ritagliata nello specchio della memoria del cavaliere come un luminoso ricordo, sarà per lui un conforto, una consolazione, qualcosa in cui credere: non è forse la memoria il tabernacolo della nostra coscienza, il luogo segreto in cui attingere immagini pure, intatte, sottratte al mutare del tempo, perfette nella loro compiuta definizione? E il cinema non è un immenso deposito di queste reliquie secolarizzate, di immagini di bellezza e di felicità? Alla fede inquieta e dubitante del cavaliere, la poesia dell’istante appare come un’oasi di certezza, che nessun dubbio potrà incrinare o scalfire: la tazza con il latte, il piatto di fragole, il canto del saltimbanco, la sera luminosa sono accadute, sono state una volta e quindi appartengono già all’eternità.
Michele Bertolini