Non posso negare l’influenza e il ruolo che hanno svolto nella mia formazione di appassionato di cinema i registi italiani. Anche se il mio rapporto con la tradizione culturale italiana è controverso e spesso conflittuale, spingendomi spesso a interessarmi della letteratura e dell’arte straniera, è innegabile ricordare il valore artistico della cinematografia italiana, a partire dal neorealismo che ha formato tutti i nostri più grandi registi. Registi che troppo spesso forse sono caduti nella maniera e nell’estetismo, in una ricerca stilistica di grande raffinatezza, ma a volte auto-referenziale: un rischio che Fellini, Antonioni, anche Pasolini, hanno attraversato. Non è il caso di Rossellini che non considerava il cinema come un’arte, ma prima di tutto come un’esperienza morale, come una forma di educazione civile del pubblico.

Del suo cinema didattico, che ha trovato infine il suo superamento nella televisione, Europa 51 costituisce una messa in discussione potente e radicale, dal momento che il personaggio tratteggiato nel suo film, Irene-Ingrid Bergman, sfugge a qualsiasi categoria, ad ogni ideologia, cattolica o comunista, emergendo nella sua follia o santità come un scandalo assoluto.
Al di là della sua motivazione troppo teorematica, che si ritrova peraltro, paradossalmente, anche in Otto e mezzo (nulla di più programmatico di un film su un regista in crisi che deve girare un film), Europa 51 vive grazie al potere dello sguardo che il cinema di Rossellini ha saputo lanciare sul mondo e sulla realtà storica. Irene è uno sguardo, la sua funzione si riduce al sua essere veggente in un mondo in cui tutti cercano, ciecamente o coscientemente, di agire, di modificare la realtà, di produrre sogni, ideologia, benessere.
Rossellini (come faranno poi anche Pasolini e Antonioni) ha ridotto la deambulazione neorealista, il movimento del personaggio nel suo ambiente, all’atto del guardare, dell’osservare, a un occhio-macchina da presa, che deve cancellarsi in favore di ciò che registra sul piano dei sentimenti e degli affetti. Nessun regista ha saputo filmare meglio l’alienazione del lavoro di fabbrica, alla catena di montaggio, di Rossellini nell’episodio in cui Irene, la moglie agiata di un industriale, vive la condizione operaia rimanendone schiacciata, nella misura in cui il suo sguardo non è più capace di reggere il confronto, di guardare l’ossessiva accelerazione dei meccanismi di produzione industriale, sottolineati da un montaggio sempre più veloce (e in cui il montaggio cinematografico svela la sua segreta affinità con la catena di montaggio).
All’altro polo, al di là dell’orrore di una realtà storica ed esistenziale, spesso insostenibile per lo sguardo umano, si colloca il sogno, ovvero Fellini e Otto e mezzo. In entrambi i film, apparentemente così distanti, sono presenti dei numeri, delle cifre: se Rossellini (e non è la prima né l’ultima volta: Germania anno zero, Roma città aperta, Anno uno) sceglie di dirigere la sua attenzione su uno spazio geopolitico (l’Europa) e un anno cruciale, fedele alla sua volontà di cogliere in situazione l’uomo nel suo ambiente storico e sociale, Fellini ripiega sul numero delle sue regie, sulla complessità dell’autobiografia, nella convinzione che dentro la mente e l’anima di un uomo si possa ritrovare in fondo tutto un mondo. E se a proposito di Rossellini ho evocato il termine sguardo, Otto e mezzo di Fellini si presenta come una visione di quasi due ore e mezzo, uno dei più magistrali e potenti tour de force dell’immaginazione creativa del suo autore, tale da far impallidire registi visionari come Kusturica o Greenaway.

In un film sulla crisi di un regista, in riposo in una stazione termale, l’immaginazione è costantemente al lavoro: una fantasia slabbrata, onnipotente e ludica, dai confini sfumati, che mescola ricordi d’infanzia e visioni, sogni e autobiografia, e che è colta nel suo farsi e disfarsi, nel suo continuo procedere in avanti.
Fino ad approdare all’ultima sequenza, la parata circense di tutti i personaggi sulle note di Nino Rota, un girotondo che sembra costituire quasi un pendant giocoso (ma altrettanto amaro) della danza macabra, una successione di figurine e silhouette da lanterna magica, con cui si chiude Il settimo sigillo. Con Bergman, come con Fellini, il cinema riscopre la sua natura magica, arcaica, illusionistica, la sua archeologia: una lanterna magica, un divertimento da fiera, che affascina gli occhi di un bambino.
Michele Bertolini